viernes, 26 de octubre de 2012

Italia 1860.. Il grande Imbroglio.




 Il busto di Garibaldi nel giardino del palazzo Branciforti in Sicilia
                                                                      



La storia mai raccontata: l’impresa dei Mille di Garibaldi fu una truffa nei confronti dei Siciliani, ed ebbe lo scopo di annettere   la Sicilia ad uno Stato che ancora non esisteva, in nome di una Unità che portava benefici soltanto al Nord Carpita la buonafede del popolo isolano l’analfabetismo fu la carta vincente di Cavour e dei suoi soci piemontesi.

Alla luce di così tanto interesse sulla questione siciliana che si è accentuata in questi ultimi tempi, vogliamo narrare quanto accadde in Sicilia quel famoso 21 ottobre del 1860, anniversario che è ricorso proprio nei giorni scorsi, poiché ancora sono in tanti a non conoscere la “verità” guardata da un diverso di punto di vista da quello ufficiale, di quella pagina di storia che ci ha portato a ciò che siamo oggi.
Al fine di essere il più possibile chiari sulla questione, non possiamo esimerci d’iniziare senza brevemente accennare ad alcune realtà sullo sbarco di Garibaldi, azione che lo storico Mack Smith ha definito “la donchisciottesca spedizione di Garibaldi e dei suoi Mille”, circa il modo rocambolesco di come avvenne l’operazione. Innanzitutto, apparve chiaro che le operazioni paramilitari di Garibaldi furono prive di validità giuridica perché a quell’impresa mancò la credenziale di uno Stato ufficialmente costituito e, quindi, la necessaria copertura di una bandiera.
Si trattò dunque, a nostro avviso, di un’avventura paramilitare, personale e piratesca assolutamente illegale, per usare un linguaggio in voga oggi. Sin dal primo momento, il popolo siciliano ebbe seri dubbi sull’azione: si voleva realmente liberare la Sicilia dalla dominazione borbonica, oppure si voleva compiere un’altra vera e propria invasione
Infatti, quel giorno di maggio, quando a Marsala giunse Garibaldi con le sue navi, in rada e alla fonda del porto trovò due cannoniere della “Mediterranean Fleet” inglese: le HMS. “Argus” e “Intrepid”, formalmente in visita di cortesia in Sicilia, ma in realtà giunte lì su precise istruzioni del gabinetto Palmerston Russel; e mentre i garibaldini del Piemonte erano già sbarcati e gli altri del “Lombardo” si accingevano a imitarli, sopraggiunsero a Marsala la pirocorvetta “Stromboli”, comandata da Guglielmo Acton, e due altri piroscafi armati della stessa flotta borbonica, che si accorsero della presenza sul molo di uomini in giubbe rosse e li scambiarono per i red coats delle truppe inglesi. Allora, il comandante Acton, che aveva già fatto armare i pezzi, fece chiedere agli inglesi se gli uomini armati che si vedevano sul molo fossero truppe britanniche. Gli inglesi risposero di no, e nel contempo, avvertirono Acton che i loro comandanti si trovavano a terra. Acton, che rabbrividì al solo pensiero che una scheggia di granata potesse colpire un ufficiale della regina Vittoria, decise di attendere il loro ritorno sulle loro navi, e solo dopo un’ora buona poté aprire il fuoco. Ma a quel punto, gli uomini intravisti sul molo erano già al sicuro e ben nascosti dai tiri dello “Stromboli” e dei piroscafi “Partenope” e “Capri”. Questi episodi della prima ora di Garibaldi e dei Mille in Sicilia, la dicevano già allora lunga e c’inducono oggi a ritenere che, se il capitano di fregata Acton non fosse stato troppo fiducioso nella lealtà britannica e avesse adempiuto al suo dovere di soldato, almeno la metà della spedizione che approfittò di quell’ora per abbandonare il “Lombardo”, avrebbe fatto la stessa fine che fecero nel 1857 i 300 di Carlo Pisacane, e forse la storia che portò la Sicilia dall’una all’altra dominazione sarebbe ancora tutta da scrivere.
D’altronde, la perfidia e l’egoismo della diplomazia inglese, le sue riserve mentali sul destino coloniale della Sicilia, nel maggio 1860, non vennero compresi soltanto da quell’ufficiale borbonico che, dopo tutto, passò al nemico prima ancora della capitolazione del proprio re, ma non lo furono dagli stessi Siciliani nel 1812, nel ‘48, nel ‘60, e anche nel 1943-45. La narrazione di quei fatti non ha lo scopo di fare filosofia politica o di rifare la storia dell’impresa siciliana di un G Garibaldi a cui il Foreign Office credette di riconoscere la stoffa del Bolivar, di San Martin, di Artigas, di Espartero, la stoffa del libertador sudamericano o iberico, anglofilo per inclinazione o per necessità; né di dare spazio alla sterile e odiosa polemica sull’estrazione tipicamente italica e nordista del contingente originario dei cosiddetti Mille. Lo scopo è invece di chiarire lo status che il nuovo invasore rivesti in Sicilia, succedendo all’occupante borbonico. Giuseppe Garibaldi non prese mai in considerazione il sacrosanto diritto dei siciliani alla libertà, né volle riconoscere l’esistenza di quel partito costituzionale che rappresentava l’opinione politica maggioritaria di essi. Non di meno, i testi scolastici e la storiografia tradizionale tentano ancora, nel 2006, di far passare per verità la grossolana menzogna secondo cui egli sbarcò nell’isola per aiutare il popolo siciliano a riprendere in mano la disponibilità del proprio destino. Infatti, nel primo decreto fatto a Salemi due giorni dopo lo sbarco, egli si autoproclamò “comandante in capo delle forze nazionali in Sicilia” e affermò di “assumere nel nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia,la Dittatura in Sicilia”.
Cioè, si attribuì, senza mezzi termini e senza alcun equivoco, la posizione giuridica dell’occupante bellico e, in  particolare, dell’invasore il quale, per delega più o meno espressa del non ancora re d’Italia, intendeva succedere al precedente invasore. È dunque inoppugnabile che fin da questo suo primo decreto, egli scartasse ogni pur minima concessione alla libertà dei siciliani, poiché con la forza acquistava la sovranità del territorio che gradualmente andava occupando. Contrariamente alla sua conclamata sensibilità di “eroe della libertà dei popoli”, che avrebbe dovuto indurlo a scegliere di concedere la legislazione e l’organizzazione che lo Stato di Sicilia si era dato nel 1848-49, si comportò da invasore, sfruttando il territorio occupato, distraendone le risorse finanziarie per i bisogni di altri territori, di altre popolazioni, di altri Stati

Gli eventi di quella triste pagina di storia del popolo siciliano, che fu rapinato, saccheggiato, umiliato, reso servo e trucidato dai liberatori garibaldini, non trova spazio di approfondimento in questa brevissima narrativa che, principalmente, è rivolta all’atto ben congegnato di annessione della Sicilia. Infatti, il 2 giugno, il governo provvisorio garibaldino aveva emanato da Palermo un decreto sulla divisione dei demani; ma non appena i contadini passarono a reclamarne l’attuazione e a rivendicare anche la quotizzazione delle terre demaniali acquistate illegalmente dai commercianti e dai borghesi, fu proprio quel governo che cominciò ad applicare contro di essi quegli altri decreti emanati dallo stesso Dittatore in difesa della proprietà e degli interessi agrari della borghesia e, per di più, adottando contro i poveri disillusi la procedura sommaria dei Consigli di guerra distrettuali, istituiti con il decreto del 20 maggio.
E se ciò costituì da un lato una garanzia per la classe aristocratico-borghese, la quale inclinò subito all’annessione pronta ed incondizionata, determinò dall’altro la frattura definitiva tra quello pseudo-liberatore e il proletariato dell’isola.
Inoltre, le stragi contadine che Bixio e gli altri comandanti delle colonne garibaldine consumarono a Bronte, a Nicosia, a Mascalucia, a Nissoria, a Leonforte e a Biancavilla, sono il suggello e le prove storiche più schiaccianti della politica filo-borghese e reazionaria adottata fin dal primo momento dall’Eroe della libertà dei popoli. Garibaldi mise subito in atto il desiderio del re che “si compisse senza ritardo l’annessione”, e Depretis (pro-dittatore con il decretò di Milazzo del 21 luglio) cominciò ad emanare tutta una serie di provvedimenti allo scopo di far scomparire ogni residua possibilità di autodeterminazione dei siciliani.
A tale proposito, ricordiamo in modo specifico i provvedimenti politicamente e psicologicamente incisivi del 13 giugno, con il quale si abolì l’emblema nazionale dell’Isola, sostituendolo con lo stemma sabaudo, come se la Sicilia dovesse essere considerata d’ora innanzi un bene di quella Corona o addirittura parte del patrimonio privato di quei re; quello del 16 giugno, che revocò le dogane tra l’Isola e le province italiane; quello del 17 giugno, che impose alle navi siciliane la bandiera dello Stato sabaudo; quello del 2 luglio, con il quale si stabili che gli effettivi dell’esercito siciliano andavano a costituire la XV e la XVI divisione dell’esercito piemontese; quello del 6 luglio, che dispose l’intestazione di tutti gli atti  pubblici a “Vittorio Emanuele II Re d’Italia”, quando ancora non lo era; quelli del 5 e del 14 luglio, con i quali gli uomini della Marina Militare siciliana furono incorporati negli organici di quella Sarda.
Dal 3 agosto ad oltre la metà di ottobre, anziché dare la pro-dittatura ad Antonio Mordini, si attuò una vera e propria buriana di provvedimenti: l’estensione all’isola dello Statuto Albertino; l’adozione della formula del giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele Il e ai suoi reali successori; l’intestazione delle leggi “in nome di S.M. Vittorio Emanuele Re d’Italia”; l’unificazione monetaria; il riconoscimento alla pari dei gradi accademici conseguiti fuori della Sicilia e nei pubblici concorsi svoltisi nell’isola. Vennero recepiti pure i decreti piemontesi sull’ordinamento degli uffici di Questura e sulla Pubblica sicurezza, come anche le leggi e i regolamenti della marina mercantile sarda. Vennero estesi all’isola la legge comunale e provinciale sarda del 23 ottobre 1859, il Codice penale militare piemontese e la legge piemontese 16 novembre 1859 sulla composizione degli uffici di Governo e d’Intendenza, sui gradi, le classi, gli stipendi dei funzionari, degli impiegati e del personale di segreteria. Questa pesante messe di disposizioni, è stato giustamente osservato da De Stefano e Oddo, “metteva l’isola né più e né meno sul medesimo piano delle province che avevano votato l’annessione al regno sardo, e annullava e trasformava radicalmente istituzioni, uffici, metodi inveterati e adeguati alle tradizioni isolane”. La flebile opposizione radicale del gruppo crispino affogava dunque nella marea di quei decreti e di quel “riordinamento amministrativo” che costituirono la base politica e psicologica per il plebiscito di annessione immediata. Quando però il 14 settembre Garibaldi si vide costretto a Napoli, ad accettare le dimissioni di Depretis per sciogliere il nodo del contrasto insorto tra la politica di quest’ultimo e quella temporeggiatrice del gruppo dei radicali – contrasto che aveva portato alle dimissioni dello stesso cervello politico del Dittatore dal governo presieduto dal Depretis sembrò che tra il nuovo prodittatore Mordini e i democratici e i moderati autonomisti chiamati al ministero si potesse giungere alla mediocrità di un accordo di massima sul futuro assetto costituzionale dell’Isola.
E in questo senso va interpretata la decisione del 5 ottobre del Consiglio dei ministri, in base alla quale Mordini decretò e promulgò la convocazione dei comizi elettorali per l’elezione dei deputati che avrebbero dovuto stabilire in Palermo, «in Assemblea, le condizioni dell’annessione».
Alle elezione avrebbero potuto partecipare ora “tutti i cittadini” alfabetizzati e non esclusi dal titolo di elettore, dai 21 anni in poi, come d’altronde aveva proposto il decreto dittatoriale n 57 del 23 giugno, con il quale si richiamarono ancora le stesse norme della legge elettorale promulgata dal Governo siciliano del ’48 e caddero tutte quelle categorie del censo che erano state ripristinate invece dal Borbone dopo il maggio ’49. Nel decreto del 5 ottobre si premise che quei comizi avevano lo scopo di «stabilire le condizioni di tempo e di modo, per entrare in seno alla grande famiglia Italiana», e mentre l’art. 1 fissava le elezioni per il 21 ottobre, all’art. 14 si diceva: «Un’altro prossimo decreto indicherà il giorno ed il luogo in cui i deputati eletti si debbano riunire in Assemblea, nella città di Palermo». Non appena infatti pervenne anche l’assenso definitivo del Dittatore che si trovava ad attendere sul Volturno l’avanzata dell’esercito piemontese, il 9 ottobre il governo Mordini decretò addirittura che alla data fatidica del 4 novembre “L’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo Siciliano” avrebbe dovuto riunirsi in Palermo.
Lo stesso Mordini, nella nota illustrativa del precitato decreto-diretta ai Governatori dell’isola, dopo aver affermato che “il suffragio universale diretto è la più irrecusabile consacrazione della volontà di un popolo”, volle mettere in risalto il motivo per il quale il governo da lui presieduto aveva scelto il ricorso all’Assemblea dei Rappresentanti e non il suffragio diretto, abbandonandosi a queste candide confessioni: “Nel ricevere dalle mani del Dittatore la delegazione dei suoi poteri sull’Isola, io riconobbi la esistenza di elementi di discordia alla superficie, non al fondo della società  siciliana”, per cui, convintosi che “dalla massa emerge la classe che non ragiona soltanto col cuore e che discute i problemi dell’avvenire con calcoli freddi e maturi”, il Governo da lui presieduto aveva deciso per la convocazione dell’Assemblea, in quanto la stessa apriva “larghissimo il campo alla classe intelligente e colta di svolgere, in un terreno libero, indipendente, non soggetto a coazione alcuna, i propri studi, le proprie vedute, i concetti che ognuno crede meglio conducenti a consolidare il benessere generale”. E l’opinione pubblica, come rileva Mack Smith in “Cavour e Garibaldi nel1860”, “aveva accolto con favore il suo progetto di Assemblea”, giacché a tutti pareva giusto che si discutessero le forme e i modi di quella non invisa richiesta di adesione alla “grande famiglia Italiana”. Come però era da attendersi, Cavour reagì immediatamente anche perché aveva già respinto la stessa proposta fattagli al principio di luglio dal gruppo moderato autonomista guidato da Emerico Amari, da Francesco Ferrara e dal conte Michele Amari; e, deciso a scongiurare il pericolo delle aumentate pressioni di Mazzini, Cattaneo, Conforti e Crispi su Garibaldi per la convocazione delle Assemblee costituenti di Sicilia e di Napoli, quando il 2 ottobre si aprì a Torino la seconda e ultima sessione di quella VII Legislatura, presentò alla Camera un disegno di legge in cui si autorizzava il Governo ad accettare per regi-decreti le “annessioni incondizionate da farsi con i plebisciti”. L’11 ottobre,la Camera approvò la proposta quasi ad unanimità e così, il 16, il Senato e, a questo punto, il genio politico di Garibaldi, partorì quel decreto di S. Angelo del 15 ottobre, nel quale addirittura sancì, sei giorni prima della data già fissata in Sicilia per quegli altri ben diversi comizi elettorali, l’annessione sic et simpliciter della Sicilia e del Napoletano al Regno di Vittorio Emanuele Il. “Le Due Sicilie», dice l’unico articolo del madornale decreto, «… fanno parte integrante dell’Italia una ed indivisibile, con Re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi discendenti. I Pro-dittatori sono incaricati dell’esecuzione del presente  Decreto”.
E se questa non fosse la storia sulla quale è tessuto il dramma della Sicilia dal 1860, saremmo tentati di credere che ci si trova di fronte ad una pochade o a un vaudeville. Ma non è ancor tutto, perché nello stesso giorno, Torino indusse il suo eroe sudamericano ad annullare il decreto, spiegandogli forse discretamente che per salvare almeno la faccia di fronte all’Europa si sarebbe dovuto procedere all’annessione coi plebisciti e non con un decreto dittatoriale.
E così, i due pro-dittatori, Pallavicino a Napoli e Mordini a Palermo, ricevettero dal loro capo politicamente esautorato la libertà di rimescolare ancora le carte. Mordini, infatti, con un proclama dello stesso 15 ottobre, ritrattò la convocazione di quei comizi indetti per eleggere i Rappresentanti dell’Assemblea che avrebbe dovuto “stabilire le condizioni” della Sicilia per entrare a far parte della “grande famiglia Italiana”, e dopo avere puerilmente affermato che in quel giorno “nuovi casi” avevano “cambiato le condizioni nel decreto”, pubblica in calce al buffo e sconcertante proclama: “Art. 1° – I comizi elettorali convocati per il 21 ottobre, in luogo di procedere all’elezione dei deputati, dovranno votare per plebiscito sulla seguente proposizione: “Vogliamo l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale ed i suoi legittimi discendenti». Art. 2° – Il voto sarà dato per bullettino stampato o scritto portante la scritta «Si» o «No»; ogni altro bullettino sarà reputato nullo… ”. S’immagini, dunque, quanta confusione produssero questi reiterati contraccolpi sul già disorientato spirito pubblico di un Popolo che contava ancora un numero di analfabeti che toccava il 90%, e che raggiungeva il 100 % tra le popolazioni rurali e nei quartieri più popolosi delle stesse città. Come osserva Mack Smith nell’opera citata, “fu proprio l’ignoranza generale, di fatto, che in Sicilia garantì a Cavour il voto popolare”. Le nuove modalità dettate da Mordini per esprimere il “voto plebiscitario” erano tra l’altro profondamente differenti dalle modalità adottate l’11 e il 12 marzo del1860 in Emilia e in Toscana dai Governi provvisori annessionisti del Farmi e del Ricasoli, i quali, sempre in adempimento alle istruzioni di Cavour, avevano chiamato gli ex-sudditi di quegli ex-ducati assolutisti e senza storia a scegliere una di queste due proposte: “Annessione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele Il” oppure “Regno separato”. Come invece abbiamo visto, per i siciliani la necessaria chiarezza di questa legittima alternativa non ebbe spazio. Da parte di alcuni dei tanti giornali annessionisti che fiorivano ormai in ogni Comune con i soldi della Società Nazionale, in quei giorni si scrisse pure che l’eliminazione dell’espressione “annessione alla monarchia di Vittorio Emanuele” dalla formula plebiscitaria proposta, sottintendeva già la considerazione dei diritti particolari dei siciliani, e che dunque si votava solo “per entrare a far parte di un nuovo Stato italiano e non per annettersi a uno Stato già esistente e in possesso di una costituzione già interamente redatta”. Questa grossolana menzogna dei gazzettieri era, però, smentita dallo stesso testo della formula plebiscitaria, ma di per sé illumina la preoccupazione del nuovo occupante e del suo mandante, che ricorreva ad ogni mezzo per piegare al plebiscito la “libera volontà” del Popolo. Torino, infatti, ben sapeva che l’occupazione bellica, pur se si estende alla maggior parte del territorio nemico, non può spiegare da sé alcuna efficacia giuridica in ordine al suo acquisto e rimane sempre un fatto puramente militare che non può dar luogo a nessun mutamento di sovranità. Era pertanto necessario che all’occupazione si aggiungesse un titolo giuridico tale da non revocare il fondamento dell’intero processo acquisitivo della sovranità territoriale: un titolo il quale, facendo seguito alla conquista del territorio e alla debellatio del Regno di Napoli, avesse appunto come effetto formale e sostanziale l’estinzione dello Stato annesso e di tutti quei suoi diritti e doveri che ne presuppongono l’indipendenza o sovranità. Quel plebiscito di natura mista che la conquista piemontese impose ai siciliani nella complessa situazione del 1860, altro non fu, come vedremo, se non l’attuazione di un progetto accuratamente elaborato per sanzionare l’annessione attraverso il metodo, in principio ineccepibile, del ricorso al “suffragio universale”. Non vi era molto da aspettarsi; ma poiché il 17 e nei giorni seguenti erano stati emanati anche alcuni decreti che allargavano e rafforzavano le piante organiche dei vari ministeri di quel governo pro-dittatoriale, come confessò nel 1868 lo stesso ex-unitario pentito Paolo Gramignani nello scritto intitolato “I Regionisti”, «si accreditò e ribadì sempre di più l’idea che si sarebbe stabilito e mantenuto in Sicilia un importante Governo locale”. Furono anzi queste implicite pattuizioni, dice il Gramignani, a spingere “fiduciosi e compatti i siciliani alla votazione del plebiscito”. Nei precedenti centocinquanta giorni dall’invasione, ogni mossa politica, legislativa e amministrativa era stata peraltro finalizzata a preparare il rito dell’adesione totalitaria alla proposta di una formula che, come ha osservato di recente anche Sandro Attanasio in “Gli occhiali di Cavour”, “non offriva alternativa… o Vittorio Emanuele e i suoi legittimi discendenti, oppure niente”. E a questo scopo, capipopolo e propagandisti politici, mafiosi di ogni calibro e piccoli burocrati desiderosi di far carriera, indigenti e possidenti, arrivisti e mestatori d’ogni genere erano stati mobilitati con qualunque mezzo dai Governi dei due pro-dittatori e dai loro organi provinciali e comunali. Erano stati distribuiti a iosa posti, prebende, incarichi e gradi che, in verità, durarono in moltissimi casi fino all’indomani della celebrazione di quella kermesse, ma risultarono oltremodo efficaci ad alimentare tutte le illusioni e le allucinazioni di quel momento. A questo giuoco, d’altro canto, si prestava mirabilmente l’odio covato per lungo tempo dal Stato di Sicilia, esistito nella sua più sostanziale integrità dal 1131 al 1815 e risorto ancora nel 1848-49.
Uno storico come Mack Smith, a cui di certo non si può rimproverare una qualche simpatia per i Siciliani e la loro causa, ma che non pecca di accuratezza e originalità di ricerche negli Archivi di Stato dell’Isola, in “Cavour e Garibaldi neI1860”precisa: “Se ci fosse stato qualche dubbio sul modo in cui il popolo avrebbe votato, esso fu dissipato all’annuncio fatto da Garibaldi, che le Due Sicilie formavano già parte dell’Italia una e indivisibile e della sua proposta di cedere a Vittorio Emanuele il potere dittatoriale che la nazione gli aveva conferito”. Dopo di che, riassume così i dati e i fatti più significativi di quel 21 ottobre: “A Palermo, su una popolazione totale di un quarto di milione di abitanti, gli elettori registrati erano solo poco più di quarantamila e di essi trentasettemila avrebbero poi effettivamente votato”.
Quella di “suffragio universale” era evidentemente un’espressione arbitraria. Molti cittadini non si erano affatto iscritti nei registri, per “non avere niente capito” – come scrisse il giornale palermitano Il Regno d’Italia del 17 ottobre – “dell’importanza del diritto di elettori… ; in cinque mesi molti hanno smarrito il biglietto, molti non l’hanno più perché non sapevano cosa farsene”. Il giorno precedente la votazione, i registri dovettero essere aperti di nuovo. Il decreto originario del 21 giugno sulla procedura del voto, aveva concesso ad ogni località di regolarsi in proposito come volesse. Messina chiese, ma invano, altri dieci giorni di preparazione; Siracusa non aveva compilato affatto le liste elettorali e un proclama invitò il popolo a firmare su un registro aperto; a Palermo grandi folle - come attesta tra l’altro il giornale palermitano L’Annessione del 21 ottobre - “dovettero votare senza nessuna previa formalità”.
Nella capitale c’era un’enorme eccitazione per questo nuovo genere di feste che precedettero il grande giorno in molte località, con illuminazioni notturne e strade - come comunicò il viceconsole inglese Richard al suo ambasciatore a  Napoli Elliot in data 22 ottobre - bellamente decorate con tappeti e bandiere sarde. Il 21 era domenica e la votazione si tenne in generale nelle chiese, dopo la messa; il pro-dittatore con i  ministri, gli impiegati pubblici e l’arcivescovo votarono tutti nella cattedrale. Alla sera, molti non si erano ancora rammentati di votare, cosi il Consiglio comunale risolse che sarebbe stato legale lasciare la votazione aperta anche tutto il giorno successivo.
Sarebbe facile dimostrare come, in molti casi particolari, il sistema usato non fosse il metodo per sincerarsi della volontà popolare. La votazione era pubblica, su un palco, con due urne aperte perché tutti vedessero quale fosse la scelta e davanti a un semicerchio di agenti lafariniani travestiti, con facce scure e un’aria di mistero, seduti al centro della navata.
Fuori dalle grandi città, nelle zone dove i villaggi erano ancora feudali e i proprietari terrieri si erano convinti che l’unione con il Piemonte offriva le migliori speranze per la restaurazione dell’ordine, la pubblicità che circondò la votazione significò un sì quasi obbligatorio. In alcuni luoghi, per esempio a Trapani – come è attestato da un telegramma dello stesso governatore di Trapani a Mordini in data 30 ottobre – i contadini, nella loro ignoranza, fuggirono in montagna, avendo l’impressione che il voto fosse solo un trucco per intrappolarli e obbligarli al servizio militare. Il corrispondente del giornale “L’Unità Italiana” di Palermo, in data 1 novembre descrive come, nel suo villaggio, il capo del municipio si alzò anzitutto per spiegare il significato del sì e del no, ma non ebbe in risposta che grida di “Non vogliamo né Vittorio Emanuele, né Francesco, ma don Peppino”, (cioè Garibaldi); allora l’oratore, un po’perplesso, rispose che proprio in questo caso dovevano votare per il sì e la gente lo fece concorde. Un Governatore, quello di Mazara, aveva scritto l’8 ottobre al  Governo di fare molta attenzione a questa sorta di problemi, e di rendersi conto che l’analfabetismo completo di quasi tutti gli abitanti rendeva impossibile un voto segreto; ma ebbe dal Governo, in data 11 ottobre, questa risposta che non gli recò certo molto aiuto: “Se l’elettore analfabeta è sottoposto all’arbitrio dello scriba, il difetto sta nel fatto, non nella legge”. I moderati si sentivano sicuri che, con la Guardia Nazionale che faceva il suo dovere, con una votazione pubblica, con la direttiva personale di Garibaldi e con alla presidenza [dei seggi] magistrati che avevano tutti giurato fedeltà a Vittorio Emanuele, non vi potessero esser dubbi sul risultato del  plebiscito.
Era però necessario unire disciplina ed entusiasmo; per questo la Guardia Nazionale fu obbligata a votare – come risulta dal rapporto del comandante della Guardia Nazionale di Milazzo al suo ispettore generale a Palermo, in data 22 ottobre – “in corpore” e in uniforme per dare l’esempio di un voto solido con bandiere e cartelli per il Sì.
Non solo la compilazione delle liste era stata alterata, ma in certi casi le schede elettorali erano messe in vendita al mercato nero. P. Grofani dà il prezzo di due scudi per ogni scheda, in una lettera a Mordini, 11 ottobre; il giornale “L’Assemblea” del 12 ottobre dà il prezzo di 5 franchi per scheda. Il governatore di Catania e quello di Messina proibirono quella che secondo loro era la “stampa clandestina” degli “agitatori” autonomisti. A Catania, uno del partito dell’annessione si vantò di aver messo a tacere ogni gruppo di opposizione nella sua provincia. Ancor più significative le parole del governatore di Girgenti, come risulta da un suo rapporto a Mordini in data 29 ottobre. A Noto e a Modica, e forse anche altrove, i governatori usarono una forma veniale d’inganno: avrebbero tralasciato di continuare la coscrizione e sospeso le operazioni di leva fino alla conclusione del voto. I votanti furono un po’ meno del quinto della popolazione. Su un totale di 292 distretti [seggi elettorali] in Sicilia, sembra che 238 non abbiano registrato nessun voto negativo. Non meno singolare appare forse il fatto che solo per 18 distretti le autorità riferirono di qualche voto nullo o di qualche scheda bianca. Altrettanto notevole, anche se più significativo, quanto riferiscono le relazioni da Patti, cioè che su 1.646 elettori, votarono tutti, e tutti per il sì. A Palermo, su 40.000 registrati ci furono più di 4.000 astenuti e solo 20 voti negativi; Messina, su 24.000 votanti registrò solo 8 contrari. Il giornale “La Forbice” di Palermo, il 23 ottobre mostrava di fare un gran conto dei 14 voti negativi sui 3.000 di Alcamo, dicendo che la loro esistenza mostrava la libertà della votazione. Alcara Li Fusi ne ebbe ancora di più, 27 su 384; Caltabellotta, 47 su 500; ma furono casi  eccezionali. Il numero più alto di voti contrari si ebbe nel distretto di Girgenti, con 70 no su circa 2.500 sì.
Non si seppe mai quanti fossero gli aventi diritto al voto su una popolazione di quasi 2.400.000 abitanti né quanti  furono gli astenuti. Come osserva Attanasio, “Mancò poco che i voti favorevoli superassero il 100% dei votanti”. Il risultato del plebiscito infatti, anche secondo quanto afferma Mack Smith nella “Storia della Sicilia medievale e  moderna”, diede «una maggioranza favorevole del 99,5%». È vero che non si hanno esempi di plebisciti contrari al regime che ne proponevano le risposte, ma è vero altresì che non si hanno esempi di plebisciti in cui, come in quello di Sicilia, su 432.720 votanti si siano avuti 432.053 sì e soltanto 667 no. Ma la radicale nullità dell’atto che i suoi  promotori avrebbero voluto far passare agli occhi del mondo come un limpido e solenne negozio di diritto pubblico internazionale, come un vero e proprio Atto o Contratto di valore politico reale, venne subito colta ed evidenziata sia da osservatori inglesi, come il Mundy e il Clark, sia da tutti i consoli e i ministri plenipotenziari accreditati ancora dai loro Governi a Palermo e nella capitale del Regno di Napoli. E i testi di alcuni di quei dispacci inviati alla vigilia e all’indomani del 21 ottobre a Londra e a Napoli dal console Goodwin, che risiedeva a Palermo e a cui faceva capo tutta la rete  consolare inglese di Licata, Messina, Catania, Marsala, come di quelli inviati dal ministro plenipotenziario Elliot al Segretario di Stato agli Esteri Lord Russell, come il rapporto di quest’ultimo al ministero Whig presieduto da Lord  Palmerston, sono eloquenti di per se. Elliot scrisse in quei giorni al capo del Foreign Office: “pur essendo moltissimi i dissidenti, sono tutti forzati a votare per l’annessione; ed infatti la formula del voto e il modo di raccoglierlo così disposti, assicurano la gran maggioranza possibile per l’annessione, ma non constatano il desiderio del Paese”. E il 30 ottobre aggiunse che «il voto era stato la farsa più ridicola che si poteva immaginare e non c’era stata nemmeno la pretesa di limitarlo a quelli che erano qualificati, poiché gente di ogni paese e di ogni età e anche di ogni sesso non hanno difficoltà nel far contare anche la loro opinione». Il ministro Russell precisò al Gabinetto: “I voti del suffragio universale in quei Regni non hanno alcun valore; sono vere formalità dopo un rivolgimento ed una ben riuscita invasione; né implicano in sé l’esercizio della volontà della Nazione, nel cui nome si sono dati… ”. Il perdurare del divieto agli storici di visionare presso il Publjc Record Office del Foreign Office tutte quelle notizie documentali e di carattere diplomatico; il silenzio medesimo che grava ancora sui rapporti inviati ai loro Governi dagli altri consoli e diplomatici, dimostrano soltanto che i giudizi di tutti i rappresentanti dei Paesi a Palermo e a Napoli furono negativi in proposito.
In questo modo si concluse l’ultimo atto di un dramma che venne subito definito dal Popolo “lu schifiu di la Rivoluzioni”. Ma non fu tuttavia, come si può credere, l’insignificante plebiscito a rinviare la soluzione del problema della libertà dei siciliani, bensì il riaccendersi, come dodici anni prima, del vecchio contrasto franco-inglese per la supremazia nel  Mediterraneo, dove l’Isola rappresenta la più importante posizione strategica. Il risultato di quell’intrigo che  l’infaticabile Cavour seppe tessere, è comunque inciso ad memoriam dei siciliani sulle lastre di marmo poste ad  ornamento delle facciate di tanti vecchi e gloriosi Comuni dell’isola.

Il Grande Imbroglio
 di Giuseppe Parisi


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